Ovunque nel mondo, giugno 2025, una donna
Ogni mattina mi sveglio con un rumore che non è mio. Non viene dalla strada sotto casa, né da dentro la mia testa. È il suono sordo della realtà che bussa, da lontano, da Gaza, da Rafah, da Teheran, da Tel Aviv, da Odessa, da Kharvik, da Israele, da Haifa, da Mariupol, da Kiev, da quelle tende che una volta erano case. Non so più da dove ancora, ho perso il conto, o forse non lo ho mai iniziato a fare, questo conto. Allungo la mano per disconnettermi dalle notizie, ma a volte resto ad ascoltare, in apnea, come si fa quando ti bloccano e ti dicono: “Respira”. Le dita si muovono sul cellulare, scorro i fatti di questa notte, in apnea, continuo a leggere ma forse non seguo nemmeno più. Sono solo parole..tutte uguali..
Da mesi ormai, ho un promemoria sulla mia scrivania. Non dice “compra il latte” nè “ritira le giacche in tintoria”. Dice: Non puoi dire che non sapevi. Una frase scarabocchiata con rabbia, o forse solo scritta con quel dolore automatico e un po’ reattivo, da cane di Pavlov: lo stimolo è una nuova notizia di strage, di bombardamento, di morte, la risposta è l’indignazione. Mi chiedo se io sia davvero indignata o se invece mi ci stia soltanto abituando. Ma l’ho scritto, questo mio “Non puoi dire che non sapevi”, l’ho scritto con quella penna rossa che uso solo per sottolineare le cose che non voglio dimenticare. Un promemoria per il cuore. Un appunto per l’anima. Un chiodo piantato nella carne viva della nostra complicità. O della nostra ignoranza. O della nostra abitudine.
Non puoi dire che non sapevi. Ma posso dire che non capivo, che non ci stavo capendo niente. Che avevo perso il conto delle stragi, delle guerre, dei soprusi, delle violenze. Non che non sapevo, perché le immagini sono ovunque.
I bambini feriti, i padri che scavano sotto le macerie, le madri che portano sulle spalle il corpo senza vita del figlio. I tetti squarciati, gli sguardi di chi resta. I giornalisti uccisi. Gli ospedali presi di mira. Le scuole colpite. I forni bombardati. I campi profughi rasi al suolo. Le file per un pezzo di pane. L'acqua che non c'è. Le tende che si sciolgono sotto il napalm. La lista degli orfani che cresce più di quella dei vivi.
Tu puoi girarti. Puoi cambiare canale. Puoi dire che non vuoi vedere, che ti fa stare male. Che preferisci tenere alta la vibrazione. Che bisogna pensare positivo. Che non puoi salvare il mondo. E’ vero, tutto questo è vero. Anche questo è vero. Ma forse non basta.
E’ vero, non puoi salvare il mondo. Ma la verità è che non si tratta di salvarlo. Si tratta di non smettere di sentirlo. Di non cedere all’indifferenza. Di non diventare sordi. Di non lasciare che il cuore si secchi come una foglia.
Ci provo, da un po’. Scrivo un pensiero, una parola, una visione. E la metto in un barattolo. Sì, un barattolo . Perché voglio ricordare che esiste anche questo, da qualche parte ancora un po’ di gioia. Magari quella piccola, delle piccole cose.
La carezza di una madre. La luce tra le foglie. Un pezzo di pane buono. Una risata con un’amica. Il silenzio del bosco. Il profumo della pelle di un bambino. Una poesia. Un abbraccio che non chiede niente. Il gesto gentile di un estraneo.
Un barattolo che raccoglie frammenti. Non per dimenticare l’orrore, ma per non lasciare che sia l’unica cosa che esista. Un barattolo che mi ricorda che sono ancora umana. Che posso ancora sentire. Che non sono morta dentro.
E forse da qualche parte, anche sotto le bombe, c’è qualcuno che fa la stessa cosa.
Che tiene stretto un oggetto, una parola, un sogno. Che scrive su un pezzetto di carta: “Oggi ho riso.” “Oggi ho ricevuto un abbraccio.” “Oggi sono ancora viva.”
Tel Aviv, 14 giugno 2025, una donna
Ore 5.42. L’allarme aereo è partito da pochi secondi, ma ho già i piedi nudi sul pavimento. Non è più tempo per il panico. Da settimane, i missili arrivano a ondate, lanciati dal Libano, da Gaza, dall’Iran. Viviamo in apnea. Dormiamo vestiti, abbiamo la borsa pronta. Stiamo imparando a distinguere il suono dei razzi da quello dei droni.
Ora l’allarme generale. Il protocollo è chiaro: devo correre nel rifugio. Devo prendere il minimo indispensabile.
Le chiavi. Il cellulare. Mi volto un attimo, solo un attimo, verso la mensola della cucina. Il barattolo è lì. È un grande contenitore di vetro trasparente, pieno di piccoli fogli colorati piegati in quattro. Non dovrebbe essere una priorità. Non dovrebbe neppure essere lì. Ma lo prendo. Lo infilo nella borsa. E scendo.
Chi mi guardasse da fuori non capirebbe. Forse chi come me sta sotto le bombe non cerca l’eroismo, cerca umanità. Anche minuscola. Anche fragile. Un gesto. Una memoria. Una traccia che dica: “Io sono ancora viva, ancora capace di amare, ancora presente in me stessa”.
Questo barattolo, per me, è questo.
Lo ho cominciato insieme a mia cugina Narges, che vive a Teheran.
Un’altra città che brucia. Anche lì si accende il cielo di notte, anche lì si scende nei rifugi, anche lì le donne si svegliano prima dell’alba, temendo per la vita dei figli.
Eppure, proprio da lì è nata l’idea. “Scrivi una cosa bella ogni giorno. Mettila in un barattolo. Una frase, una parola, un ricordo. Qualcosa da salvare. Era cominciato tra noi come un gioco. Ora è una pratica. Una liturgia minima della sopravvivenza.
Teheran, 15 giugno 2025, una donna
Il rifugio è pieno di corpi rannicchiati, di odori umani, di silenzi tesi. Alcuni scrollano le notizie sul telefono. Altri non parlano.
Narges, seduta sul pavimento freddo, apre il barattolo. Pesca un foglietto.
“Oggi, nel mezzo del silenzio, sono ancora viva”
Lo passa alla donna accanto a lei, una madre con tre bambini e le mani tremanti.
La donna legge. Sorride. Solo un po’, ma abbastanza.
Narges pesca un altro biglietto.
“Il mio studente Etan ha detto: ‘La filosofia serve quando non si capisce più niente’.”
Sì, pensa. Anche questo è vero. E chi ci capisce più niente, perché siamo scappate qua sotto? Chi ci sta bombardando, e perché? Perché noi civili dobbiamo essere bersaglio, e di cosa? Attacchi, droni, morti, il nostro cielo, le nostre notti sono attraversate da tanta violenza. Nelle scuole, nelle cucine, nelle case si muore.
In una stanza sotto terra, in mezzo a una guerra, non so più quale guerra sia, non so più dove siano queste due donne ma queste due donne si passano bigliettini.
Un atto minuscolo. Ma potentissimo. Vogliono la pace ma non una pace astratta.
Una pace radicata nel quotidiano. Nelle piccole scelte. Nella gioia salvata a brandelli.
Perché se smettiamo di scrivere la bellezza — anche sotto le bombe — allora la guerra ha vinto davvero.
Kiev, oggi, una donna
Sono tornata a casa, anche questa volta sono ancora viva. Molte finestre non esistono più. Un’esplosione ha sventrato il piano superiore. La cucina è piena di vetri. Il lavandino non c’è più. Appoggio a terra il mio barattolo intatto, prendo un nuovo foglietto. Scrivo.
“Ci siamo tenuti per mano in sei, nel rifugio. Era poco. Era tutto.”
Poi fotografo il biglietto. Lo mando a Narges, a Teheran. Ci eravamo conosciute su Faceboock, quando ancora potevamo comunicare. Chissà come sta, chissà se è ancora viva. Eravamo diventate amiche.
Mi arriva subito la sua risposta, mi sembra un sogno. E’ viva:
“Il mio barattolo oggi era vuoto. Ora non più. Grazie di essere viva, grazie di essere viva con me. Grazie di avermi presa per mano ”
Non c’è gesto più rivoluzionario, oggi, che salvare la memoria della luce, anche quando il cielo si oscura. È un modo per ricordare che sei viva. Che non sei sola.
Che esiste ancora un filo invisibile che unisce le donne, le madri, le figlie, le sognatrici, da Tel Aviv a Teheran, da Milano a Kabul, da Gaza a Palermo.
Non è mai solo un barattolo. È la memoria di ciò che ci rende umani.