130- Il trionfo dell’ego fragile
la esasperazione di maleducazione, rigidità mentale e supponenza
Da sempre chi, come me, arriva ai settanta anni si ritrova a confrontare il presente con il famoso “ai miei tempi” e, in modo quasi automatico, due blocchi di mentalità — il passato e il presente — si mettono a dialogare pretendendo entrambi di avere la meglio. E certamente nell’uno e nell’altro blocco temporale ci sono aspetti di luce e aspetti di ombra, ma si tratta semplicemente della storia dell’umanità che procede da sempre in questo modo.
E, a questo punto, la settantenne che sta pontificando risponderebbe con un “Ma…” per dimostrare che sta analizzando seriamente la situazione e non sta solo giocando al “noi siamo meglio di voi”.
In questo caso il mio “ma” da settantenne è guidato dalla considerazione che qui non sto mettendo diverse generazioni a confronto ma mi sto chiedendo come mai, a vent’anni o a settantacinque, oggi si stia quasi tutti respirando un modo di stare al mondo che pare ormai normalizzato e che si esprime attraverso atteggiamenti contagiosi: maleducazione, rigidità mentale, supponenza, convinzione di essere perfetti e polemicità.
Sarà l’educazione nella quale sono cresciuta ma la maleducazione mi è diventata insopportabile, anche se ne riconosco la genesi, probabilmente in una mancanza di sicurezza in se stessi: se ti attacco, se ti svaluto, se alzo la voce o ti interrompo, non rischio di sentirmi inferiore o invisibile.
Forse alla base di questa immagine di sé svalutata ci sta uno smarrimento identitario che normalmente appartiene alla adolescenza ma che oggi sembra navigare attraverso ogni età. Forse perché i ruoli sono cambiati, l’identità è sempre più fluida, ogni certezza è messa in discussione ma talvolta sembra di abitare una terra di zombie irrigiditi nella loro espressione collettiva che, interpellati poi a uno a uno, talvolta mostrano di avere un grande cuore.
Maleducati e supponenti, forse perché non sanno chi loro stessi sono e possono essere senza tutto quel sapere presunto che spesso è soltanto un insieme di convinzioni appiccicate e non frutto di consapevolezze raggiunte provando e riprovando. Forse per quell’ansia collettiva di mostrarsi perfetti per non essere dimenticati, cancellati dai social, per difendere la propria immagine.
Se ripenso al desiderio sessantottino di discutere, confrontarsi, cambiare impalcature ritenute prive di sostanze, la discussione oggi mi sembra invece fatta solo per difendersi, per vincere, per essere riconosciuti distruggendo chi la pensa in modo diverso.
“È vietato vietare” si gridava nel maggio francese del ’68, ed era un’esortazione a spezzare le catene del dogma e a vivere nel dubbio, nella domanda, nel dialogo.
Pier Paolo Pasolini dichiarava: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.” E proprio in questa confessione si annidava la forza del pensiero critico: dire “non so”, senza paura.
Franco Basaglia, rivoluzionando la psichiatria, ci ha lasciato parole ancora più rivoluzionarie: “Bisogna avere il coraggio di dire che si può sbagliare.”
Herbert Marcuse parlava del pensiero critico come di uno strumento per smascherare anche le “verità ufficiali che giustificano i fatti stabiliti”.
E allora questa attuale rigidità mentale così evidente pare uno scudo, una corazza impacchettata in una visione binaria (questo è giusto, quello è sbagliato; questo è bianco, quello è nero; il giallo è vero, il verde è falso) che preserva dal rischio di navigare incerti nel dubbio. Ecco, e pensare che “ai miei tempi” (accidenti, l’ho detto!) ci hanno insegnato a amare il dubbio, ad abbracciare ogni “non so”… questo allenamento pare non sia più di moda, peccato...
Forse il problema è anche esasperato da un’educazione collettiva al successo che sta impedendo di tollerare frustrazioni, limiti, scambi di opinioni: “Voglio avere ragione!”, “Non mettermi in discussione!” sono grida silenziose e isteriche di bambini feriti che ora hanno trenta, quaranta, settanta anni e non vogliono crescere. Quasi fossero anime che hanno paura di non esistere, di svaporare, di svanire.
E allora che fare con chi è maleducato, supponente, competitivo, narcisista?
Forse prima di tutto cercare di non diventare ciò che stiamo smontando cedendo alla tentazione di rispondere per le rime.
“...se uno ti percuote la guancia destra, porgigli anche l’altra.”
Questo di Gesù non è un invito alla sottomissione ma un modo per interrompere il ciclo della violenza.“L’oscurità non può scacciare l’oscurità: solo la luce può farlo. L’odio non può scacciare l’odio: solo l’amore può farlo.”
Anche per Martin Luther King non si tratta di debolezza ma di compassione attiva.“Occhio per occhio e il mondo diventa cieco.”
Così Gandhi per bloccare cicli di reciproca distruzione.“Se vuoi fare pace con il tuo nemico, devi lavorare con il tuo nemico. Allora diventerà il tuo partner.”
Così Nelson Mandela, per non alimentare conflitti infiniti.
Forse possiamo ancora imparare ad accogliere non per approvare ma per comprendere, per spostare il proprio sguardo, esplorare altri punti di vista. Anche questo, soprattutto questo ci fa crescere.
A questo bisogno di avere ragione a tutti i costi basterebbe saper rispondere con l’esempio, con l’essenza e non con un’altra maschera, non con elucubrazioni, spiegazioni, discussioni polemiche: mi verrebbe da dire “sii gentile, non stare a spiegare la gentilezza”.
E poi si può anche scegliere. Io sono diventata più selettiva col tempo, pur avendo aperto il mio cuore a più persone. Sembra una contraddizione e io con le contraddizioni ci sto bene: caratteristica di noi Boomer?
Amare, volere bene, ascoltare, accogliere non vuole dire condividere per forza la stessa visione del mondo, non vuole dire frequentare per forza il maleducato, la supponente, i polemici — ma non significa smettere di amarli.